Wonder: la bellezza di essere diversi
Avete
mai sentito la frase:” la bellezza è lo specchio dell’anima”? Il film Wonder fa
capire, a chiunque riesca a cogliere il messaggio di fondo della pellicola, che
è esattamente l’opposto.
Con
questo mio scritto vorrei esaminare alcuni degli spunti che si possono trarre
dal film e farne una mia personale analisi. Raccontarvi la trama sarebbe sciocco
e inutile, la potete trovare senza problemi su internet; io preferisco fare
qualcosa di diverso, lasciandovi godere la visione di questo bel film senza
anticiparvene i contenuti, se non qualche episodio essenziale alla comprensione
del senso del mio discorso; anzi spero di incuriosirvi al punto di spingervi a
vederlo.
Essere brutti, nel mondo odierno in cui ogni
cosa deve essere esteticamente perfetta e più appariscente possibile, è una
penalizzazione notevole; ma per un bambino di 11 anni sfregiato dalla nascita sembra
di vivere in un incubo. Il volto è l’unica parte del nostro corpo che resta
sempre in mostra in ogni istante della nostra esistenza, esposto agli sguardi
di sconosciuti pronti a giudicare una persona dalle apparenze.
Auggie,
questo il soprannome del protagonista, ha subito 27 operazioni per poter vivere
da mostro: sì da mostro, perché è così che tutti lo considerano il primo giorno
di scuola media: lo fissano e si scansano, solo a sfiorarlo temono di essere
contagiati da un appestato. In una scena del film alcuni bambini lo dicono
esplicitamente: “se lo toccate prenderete la peste”. Sono comprensibili il suo
sentirsi solo, abbandonato a se stesso e la sua strategia di mettersi un casco
da astronauta (in cui non si vede il viso di chi lo indossa) per proteggersi
dal giudizio altrui, ogni qual volta debba uscire di casa.
August
il primo giorno di scuola deve per la
prima volta provare a relazionarsi con i propri coetanei senza il filtro di un
adulto o del casco da astronauta, e inizia così per lui un calvario fatto di
prese in giro, emarginazione e bullismo a cui riesce a sopravvivere solo grazie
a due caratteristiche molto forti in lui: l’intelligenza e la tenacia di non
mollare ciò che si ha iniziato; grazie anche all’amore di una famiglia presente
che cerca in ogni modo di compensare il suo permanente disagio con la forza
dell’affetto.
Il
rischio però di una situazione come questa, in cui tutto è catalizzato e ruota
intorno a una persona, è quello di dimenticarsi di dare le dovute attenzioni a
chi ci circonda, come nel caso della sorella maggiore del nostro protagonista,
Olivia, che da quando è nato August ha sempre dovuto arrangiarsi in tutto
innalzando sempre più un muro di distacco tra sé e i genitori, i quali sembra
quasi non la conoscano.
In
casi come questi se l’unico canale di sfogo dei propri pensieri, come in questa
situazione l’amica del cuore, si chiude, allora non si sa più come agire, quale
direzione dare alla propria vita, ci si sente perduti, come figli unici in una
famiglia estranea. In una battuta del film Olivia dice riguardo alla bravura
artistica della madre: “ha un grande occhio, ma mi piacerebbe che per una volta
lo usasse per guardare me”.
Alle
volte siamo impotenti davanti alle tacite richieste d’aiuto che ci provengono
dai comportamenti di chi ci è caro, suppliche che ci vengono mosse da uno
sguardo diverso dal solito, da un tono di voce dal quale traspare la malinconia
di chi si sente abbandonato a se stesso ma che ha paura ad ammetterlo ad alta
voce, e sprofonda in una infinita solitudine da cui è difficile saper emergere.
La
possibilità di uscire da questo triste e infinito tunnel ci è data
dall’amicizia, intesa come la capacità di andare oltre le apparenze, saper
comprendere una persona ascoltandola, capendola fino in fondo, leggendo e comprendendo
a fondo il suo cuore, quella parte del suo essere in cui tiene nascoste tutte
le sue emozioni, i suoi più intimi segreti; solo in questo modo potremo poi
riuscire a costruire una relazione con chi abbiamo davanti.
Rapportarsi
con chi è diverso da noi non è mai facile, soprattutto se la conoscenza della
persona è solo superficiale. Il bisogno di creare una relazione col prossimo
spesso conduce a due estremi opposti: da una parte ci sono persone come Miranda,
l’amica del cuore di Olivia, che non temono di confrontarsi e cercare una
conoscenza vera e approfondita di una figura come Auggie, approfondita al punto
da cercarne conforto nei momenti difficili e apprezzarne il sostegno; all’altro
estremo abbiamo chi come Julian riesce a concepire un rapporto con la diversità
solo attraverso i comportamenti del bullismo, dell’odio discriminatorio e dell’emarginazione.
Odio che arriva al punto tale da usare Photoshop per eliminare dalla fotto di
classe il “diverso”, scrivendo sul retro “sarebbe meglio per tutti che tu
morissi”.
Questo
odio spesso è dovuto a condizioni di disagio profondo la cui unica arma di
difesa è quella di ritenersi superiore, dimostrando questa superiorità
unicamente tramite la violenza, fisica e soprattutto psicologica. Molto spesso,
come in questo caso, alle spalle di queste azioni, c’è una situazione
famigliare troppo permissiva, e protettiva fino all’estremo. Situazioni come
queste oggigiorno sono sempre più frequenti e mai come adesso, problematiche.
Sempre più spesso capita di sentire casi in cui bambini e ragazzi osano
insultare o picchiare insegnanti, genitori o figure educative che tentano di
insegnare loro uno stile di vita e dei valori che sono sempre più spesso
ritenuti inutili dalle nuove generazioni, che a 15/16 anni ritengono di sapere
già tutto della vita adulta.
Cos’è
la diversità, in fondo, se non un preconcetto? Soprattutto in noi adulti queste
concezioni sono radicate al punto che spesso associamo l’essere diversi
all’essere problematici.
I
bambini sotto questo aspetto sono più inclusivi rispetto agli adulti, impiegano
molto meno tempo ad integrare chi è diverso da loro: una volta accettate le
differenze si ritengono uguali. Noi “grandi” invece ci crediamo sempre di un
livello superiore verso chi non è come noi, qualsiasi sia la differenza: il
colore di pelle, una disabilità o semplicemente la condizione
economico-sociale. Ma se ci riescono i bambini ad azzerare le differenze,
perché gli adulti non possono prendere esempio da loro?
Giorgio
Gaber nella sua ultima canzone “Non insegnate ai bambini” scrive: “non
insegnate ai bambini la vostra morale, è così stanca e malata, potrebbe far
male”. Io credo avesse capito che in alcuni casi devono essere i bambini a
farci da maestri perché solo da loro possiamo imparare la semplicità della
vita.



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