RIFESTIVAL, STORIA IN FESTIVAL
Il primo giorno del festival è
stato dedicato al fenomeno delle migrazioni da un punto di vista storico,
andando a conoscere le cause storiche dei fenomeni migratori attuali, le conseguenze
che questi fenomeni hanno sul mondo del lavoro, attraverso una approfondita
analisi del caporalato, e di come le migrazioni non siano un fenomeno che
riguarda solo la nostra realtà presente ma che già nel mondo antico era tema di
notevole importanza. Quest’ ultimo aspetto è stato affrontato da Tiziana Lazzari, Giorgio Ravegnani e Pier
Giorgio Grawonski, in una conferenza dal titolo “Confini e migrazioni: Limes e invasioni barbariche” in cui si
scopre che il fenomeno delle migrazioni
era molto ben conosciuto 2000 anni fa, nel mondo della Roma antica.
Partiamo da una domanda un po’ strana:
siamo sicuri che il Limes, la grande linea di fortificazioni al confine del
mondo romano, servisse a tener fuori quei rozzi, brutti e cattivi dei barbari e
non a tener dentro i belli e civilizzati Romani? La domanda è ovviamente provocatoria
in quanto sappiamo bene che questa linea fortificata aveva una funzione
prettamente difensiva, creata allo scopo di impedire incursioni nell’Impero.
Questa domanda ci fa però capire che il Limes era anche molto altro: era il
punto di contatto tra un mondo civilizzato e pacificato e quello selvaggio e
sconosciuto delle popolazioni germaniche e nordiche e quindi snodo nevralgico
per il commercio e l’esportazione dello stile di vita romano oltre confine. Questa
barriera era una zona di equilibrio tra due mondi opposti: sì, perché per
quante incursioni e contrattacchi ci potessero essere, il confine era un
riferimento che nessuna delle due parti aveva convenienza a spostare,
quantomeno per i primi 300 anni di impero.
Esiste però una sostanziale differenza
tra il mondo d’oggi e quello antico: infatti i Romani il problema affrontato in
questo festival non solo lo avevano saputo risolvere, ed era di dimensioni ben
più ampie di quello odierno, ma erano riusciti a trarne vantaggio! Spesso infatti
venivano fatti entrare volontariamente interi popoli attraverso i confini dell’impero
assegnando loro territori da coltivare e reclutandone i guerrieri come
ausiliari nell’esercito, utilizzati poi per pattugliare il confine stesso da
cui erano entrati o come mercenari nelle lotte intestine al mondo romano e in
guerre contro altri popoli barbarici.
Il mondo romano era quindi molto
meno chiuso di quanto possano ritenere molte persone che lo prendono a modello di
inflessibilità nei confronti dei migranti, oltre a non considerare che,
soprattutto in età imperiale, di propriamente romano e italico poco era rimasto.
Col dominio sull’intera area Mediterranea si consideravano romane persone che
provenivano da zone lontane migliaia di chilometri, che collaboravano però tutte
assieme per mantenere uno tra i più grandi, potenti e multiculturali imperi
della storia. Direi che quanto a integrazione, rispetto e cooperazione tra
persone diverse, dal mondo antico abbiamo solo che da imparare.
Facciamo ora un balzo di circa
1000/1500 anni e vediamo come si sviluppa il tema delle migrazioni nell’epoca
moderna e contemporanea, i secoli delle grandi scoperte geografiche, del
colonialismo e dell’imperialismo europeo, grazie alla conferenza dal titolo “Colonizzazione, imperialismo,
globalizzazione” tenuta da Karin Pallaver e Donatella Strangio.
Prima di tutto cerchiamo di comprendere
il significato e le correlazioni che intercorrono
tra questi tre termini.
Partiamo dal termine più generale: imperialismo.
Questa la definizione che ne dà l’enciclopedia Treccani: “politica di potenza e
di supremazia di uno Stato tesa a creare una situazione di predominio, diretto
o indiretto, su altre nazioni, mediante conquista militare, annessione
territoriale, sfruttamento economico o egemonia politica”.
Capiamo quindi che l’imperialismo
ha assunto, e assume tutt’ora, diverse forme che si possono suddividere in due
diverse tipologie. La prima genera un dominio di tipo prevalentemente
commerciale, in cui il commercio è la forma di contatto tra popolazione
indigena e conquistatori. Possiamo rilevare questo tipo di dominazione tra il
XV secolo e la fine del XIX; dal 1870 in poi, col congresso di Berlino, entriamo
nella seconda tipologia di imperialismo: quello che noi conosciamo col nome di
colonialismo.
Il colonialismo non è che una
derivazione dell’imperialismo, anche se spesso, erroneamente, associamo ai due
termini la stessa concezione di dominio e sfruttamento. Col colonialismo si
passa da una pratica di dominio indiretto basato sull’interscambio commerciale a
una dominazione vera e propria, politica e militare. Il congresso di Berlino è
il punto di svolta, soprattutto per l’Africa: nel 1870 le principali potenze europee
decidono di spartirsi il continente africano a tavolino, tracciando confini con
squadra e righello, confini puramente politici, senza tenere in nessun conto le
diverse culture e popoli che quelle aree occupavano. Inizia così un periodo di soggiogamento
e sfruttamento delle popolazioni e delle risorse africane destinate ad
alimentare l’industria europea. Il periodo coloniale in Africa durerà fino circa
agli anni ’60 del ‘900 quando inizierà il processo di decolonizzazione, con la
concessione dell’indipendenza alle colonie. La cosa che più colpisce e stupisce
di questo fenomeno è che il dominio effettivo del territorio resta perlopiù in
mano africana, di quelle élite di funzionari che si misero a collaborare con le
potenze colonizzatrici, le quali affideranno loro ruoli nell’amministrazione
locale dando loro potere e prestigio all’interno del nuovo sistema politico.
Attraverso il sistema coloniale le potenze europee riuscivano a reperire
risorse e manodopera (spostabili tra le colonie a piacimento) a costi irrisori,
in cambio di una promessa di sviluppo economico e culturale che, soprattutto
riguardo all’economia, restava solamente sulla carta. Veniva così ridotto a una
condizione di semilibertà un intero continente.
Col processo di decolonizzazione le
conseguenze dello sfruttamento europeo emergono evidenti: i nuovi stati creati
sul modello dello “stato-nazione” europeo sono tra i più poveri al mondo con
una forte instabilità politica dovuta allo scontro tra etnie, tribù e uomini
forti all’interno di territori che di nazionale hanno proprio molto poco,
conflitti spesso alimentati da convinzioni maturate e imposte sotto il dominio europeo.
Il processo di sfruttamento non è però del tutto cessato grazie a fenomeni che
la globalizzazione contemporanea contribuisce a creare: non c’è più uno stato
dietro l’abuso nell’utilizzo di risorse altrui ma grandi aziende multinazionali
che pagano le materie estratte circa 1/3 del loro valore effettivo, con soldi
che difficilmente riescono a creare benessere per la popolazione finendo spesso
nelle mani di dittatori o rimanendo intrappolati nelle maglie di una corruzione
dilagante.
Affrontiamo dunque la terza parola
tema di questa interessante conferenza: globalizzazione. Tutti pensiamo sia un
fenomeno recente iniziato forse nel secondo dopoguerra col piano Marshall, o
che sia un fenomeno ancor più recente che ha 20 forse 30 anni, in realtà è un
fenomeno molto più antico. Nasce potremmo dire insieme all’imperialismo e
all’espansione commerciale che esso comporta. L’esempio più eclatante è
sicuramente la tratta di schiavi verso l’America e l’area dell’Oceano Indiano.
La globalizzazione di oggi è
caratterizzata dalla presenza di grandi multinazionali che agiscono sui mercati
a livello globale, da un fitto interscambio di risorse tra le principali
economie del mondo e si basa fortemente su indici di sviluppo economico come la
crescita annua del Pil (ricchezza prodotta da uno stato) che però spesso non forniscono
una chiara e veritiera rappresentazione delle condizioni economiche di uno
stato. Nel Botswana ad esempio c’è il più alto tasso di crescita annuo del prodotto
interno lordo dei paesi africani (4.5/5%), basato sull’estrazione e
esportazione di diamanti, eppure gran parte della popolazione vive ancora in
uno stato di profonda povertà e la piaga dell’AIDS colpisce circa 1/3 degli
abitanti.
Da anni ormai si cerca di trovare
soluzioni per risollevare le sorti dell’intero continente e una delle ipotesi
che aveva preso maggiormente piede era quella della creazione di un piano
Marshall per l’Africa. Idea però irrealizzabile a causa di una situazione
geopolitica profondamente diversa da quella del secondo dopoguerra: quando ciò
poteva essere fatto, le potenze europee e mondiali hanno deciso di non metterlo
in atto. L’unico stato che diede e dà ancora aiuti economici ad alcuni stati africani
senza chiedere nulla in cambio è la Cina, la quale però fa investimenti per un
proprio tornaconto usando capitali e materiale umano cinese senza quindi
incidere molto sullo sviluppo dei luoghi di investimento.
Finché il mondo e soprattutto l’Occidente
non darà aiuti concreti a questi paesi, che a causa del loro pregresso
sfruttamento vivono nella miseria, non ci si potrà certo aspettare un
cambiamento o una interruzione dei fenomeni migratori che tanto spaventano noi
occidentali.
Proprio del ruolo dell’Occidente
nei flussi migratori degli ultimi anni hanno parlato Carlo Galli e Ignazio
Masulli nella conferenza dal titolo “Il
Declino dell’Occidente” partendo da una comprensione di cosa si intenda nel
mondo d’oggi col termine “Occidente”.
Possiamo distinguere tre diverse
fasi con tre diverse concezioni di questa parola. La prima di queste fasi è
quella che precede la seconda guerra mondiale in cui per Occidente si
intendevano quei paesi dell’Europa Occidentale che possedevano forti economie e
potenti eserciti (l’asse Gran Bretagna, Francia, Germania) con l’aggiunta degli
Stati Uniti nel nuovo mondo. In questa concezione ciò che manca è uno stato con
un ruolo egemone rispetto agli altri: dopo la Grande Guerra gli USA, avendo
rifiutato questo ruolo non aderendo alla Società delle Nazioni, avevano
lasciato un sostanziale equilibrio tra le varie potenze. Le cose cambiano, e
radicalmente, dopo il secondo conflitto mondiale: se si vuole datare l’inizio
di una seconda fase si potrebbe indicare come punto di svolta la conferenza di
Yalta, il 4 febbraio 1945. Quando si stava ormai profilando la sconfitta
nazista, viene deciso il nuovo ordine mondiale suddiviso nei due blocchi,
Sovietico a guida URSS e quello della Nato, il cosiddetto blocco Occidentale, a
guida statunitense. Gli stati europei escono così definitivamente dal novero
delle grandi potenze, omologandosi sempre più alla cultura socio-politico-economica
del paese egemone, adattandosi soprattutto al mito del raggiungimento del
benessere attraverso il miglioramento della propria condizione economica, che
Hollywood sa così ben pubblicizzare. L’Occidente assume così quella
mitizzazione di progresso, ricchezza e benessere che tuttora perdura e che,
dopo il 1989, andrà espandendosi verso le ex repubbliche sovietiche. Ed eccoci
quindi alla terza fase, alla terza concezione di Occidente che ingloba tutti i
paesi con una economia di mercato ispirata al modello capitalista americano. Un
sistema globale che punta a un sempre maggior guadagno spazzando via ogni logica
di tutela del lavoro (l’abolizione dell’articolo 18 ne è un esempio eclatante,
su cui però tornerò più avanti), in cui la potenza economica supera addirittura
quella politica. L’economia ha una forza tale che spesso riesce a dettare legge
riguardo a temi quali: le politiche sociali e del lavoro. Ne è un esempio preferire
che sia lo stato a concedere un reddito minimo a una persona piuttosto che
pagare, da parte delle aziende, un salario per una prestazione di lavoro. Ecco
quindi che si riesce a spiegare il dilagante populismo che investe il vecchio
mondo Occidentale, in cui è più semplice, e attrae maggiormente, promettere
redditi di cittadinanza e folli riduzioni sulle tasse che non una seria
politica di creazione di posti di lavoro.
Ma allora perché parliamo di declino dell’Occidente? Galli e Masulli
spiegano che forse più che di Occidente in generale la crisi è di quei paesi
che hanno creato e si sono maggiormente identificati con tale termine: la
vecchia Europa e gli States. Declino non tanto economico, che pure ha il suo
importante ruolo, quanto di valori e di scelte in politica internazionale. La
crisi sui valori la possiamo comprendere anche solo aprendo la tv o navigando
qualche minuto su internet: tutti si scannano su tutto (per fortuna al momento
solo a parole), gettando colpe di qualsiasi problema sulle categorie più
disagiate della popolazione, prima fra tutte quella dei migranti. Migranti che
vengono visti sempre più come “il problema da estirpare”, “quelli da escludere
e emarginare”, quelli da, per dirla alla Salvini, aiutare “a casa loro”; senza
però ricordare che a casa loro li aiutiamo con bombe, missili e sfruttamento
selvaggio delle loro risorse. Per assurdo” aiutandoli” a casa loro stiamo
creando proprio le cause per le quali queste persone vogliono venire a casa
nostra. Non riusciamo a renderci conto che coloro che non facciamo altro che
disprezzare continuamente, non rappresentano né un’emergenza né un problema
(381 mila arrivi in Europa nel 2016 su una popolazione di 507 milioni), anzi, i
migranti rappresentano una risorsa sempre più preziosa e di cui avremo sempre
più bisogno! Basti pensare che nel 2016 gli immigrati hanno contribuito per il
9% al Pil Italiano (che equivale a circa 150 miliardi di euro,ndr).
Sul profilo geopolitico invece il
declino si sta rendendo sempre più evidente sulla base di una serie di errori di
strategia internazionale da parte americana, creando così condizioni favorevoli
per un cambiamento delle precedenti scelte di politica internazionale, in linea
con gli USA, da parte della Cina e della Russia di Putin. Dopo la crisi
economico-finanziaria, generata nel 2007, questi due paesi hanno iniziato a comprendere
che creare un nuovo ordine mondiale era possibile e hanno quindi lanciato il
guanto di sfida alla supremazia statunitense. La Cina non ha mai avuto velleità
di prendersi l’egemonia mondiale attraverso l’uso della forza militare (pur
potendo, essendo, secondo business insider, il terzo esercito al mondo, ndr):
difatti il potenziamento delle forze armate sta avvenendo solo da qualche anno
a questa parte. La vera arma cinese è l’esportazione di capitali all’estero e una
crescita economica che al momento sembra inarrestabile.
Se la Cina da un lato insidia la
potenza economica americana (e forse il sorpasso è già avvenuto), la Russia
vuole riprendersi quel ruolo di grande potenza militare che l’aveva vista opposta
agli USA per tutto il periodo della guerra fredda. Un ruolo di contrapposizione
che sta divenendo sempre più chiaro nelle zone di maggior tensione a livello
mondiale, prime fra tutte Ucraina e Siria.
Difficilmente da questo scontro
potrà emergere un nuovo stato che abbia un ruolo di incontrastata egemonia mondiale
simile a quello che è appartenuto agli Stati Uniti negli ultimi 25 anni (dopo
il crollo del blocco sovietico) e che, seppure in modo meno incisivo, ancora
gli appartiene. Molto probabilmente verrà a crearsi un mondo multipolare diviso
in sfere di influenza, in cui potrebbero inserirsi anche l’India e, forse, l’Europa
anche se concepita in modo completamente diverso da come la vediamo oggi.
L’evento conclusivo della giornata
è relativo a un problema non nuovo all’Italia, legato però sempre più ai
fenomeni migratori. Federico Martelloni e Umberto Franciosi parlano di:” Caporalato: storie di ordinario
sfruttamento”.
Immagino che non tutti sappiamo o siano
perfettamente a conoscenza di cosa sia il caporalato, quindi cercherò di
chiarire il concetto nel modo più semplice possibile. Il caporalato è una “forma
illegale di reclutamento e organizzazione della mano d’opera” (Treccani) che
funziona in questo modo: un soggetto chiamato caporale recluta, al di fuori dei
canali ufficiali e legali, lavoratori a giornata per conto di un soggetto terzo,
colui a cui serve la manodopera, senza rispettare le normative in fatto di
salute, salario e orari di lavoro: in una parola sfruttamento.
Questo metodo criminale era
presente e conosciuto già nei primi anni del secondo dopoguerra: è del 1951
l’istituzione di una commissione d’inchiesta parlamentare che andasse ad
indagare sulle condizioni lavorative in Italia, da cui emerse che il fenomeno
del caporalato era fortemente presente nel settore agricolo del meridione e
nell’industria manifatturiera del centro-nord. Come primo mezzo di contrasto venne
promulgata una legge nella quale si affermava l’obbligatorietà di un diretto
rapporto di lavoro tra manodopera e datore di lavoro. L’idea era quella di
creare condizioni lavorative tali da far venire meno la presenza della figura
del caporal: come ben sappiamo non ha sortito gli effetti sperati.
Il caporalato in 50 anni è molto
cambiato subendo un’evoluzione radicale, grazie anche alle sempre più evidenti
connessioni con la criminalità organizzata delle agromafie, sulle quali abbiamo
iniziato a scoprire qualcosa grazie all’inestimabile lavoro di Gian Carlo
Caselli. Il caporalato si è evoluto in
peggio, unendo lo sfruttamento a una visione capitalistica del fenomeno,
approfittando sempre più di chi non ha nulla e legandolo a sé tramite la
concessione di un alloggio, di un pasto, o del permesso di soggiorno per i
migranti, salvo poi farlo lavorare 15 ore filate per una paga di due euro
all’ora, arrivando di fatto a considerare questi lavoratori una propria
proprietà. Siamo tornati alla concezione schiavile del lavoro che speravamo di
aver superato 150 anni fa.
Il fenomeno è venuto a conoscenza
delle masse solo negli ultimi anni attraverso alcune rivolte organizzate dai
lavoratori per denunciare le proibitive condizioni a cui erano sottoposti,
sempre che si possa definire “lavoro” questo abuso.
I migranti negli ultimi anni sono
la categoria più sfruttata da questo sistema criminale: si calcola che in
valori assoluti il loro numero sia triplicato nel periodo che va dal 2006 al
2013, mentre invece in termini di proporzione sul totale sono passati da circa
1/3 della forza lavoro a più di metà.
Lo Stato alla luce di questi fatti,
e di questi dati, ha deciso di mobilitarsi istituendo il reato (ambito penale
quindi) di caporalato nel 2011, per poi nel 2016 rendere il provvedimento
definitivo migliorandone alcuni aspetti. Per individuare il fenomeno si
studiano alcuni parametri socio economici quali tempi di lavoro, rispetto del
salario minimo di categoria, condizioni lavorative: dall’analisi di questi dati
si riesce a comprendere se c’è in atto un fenomeno di sfruttamento o meno.
Se da una parte lo stato crea degli
ostacoli a questo abuso, dall’altro ne favorisce le condizioni di cui si nutre,
ovvero miseria e disperazione. Eliminando parte dell’art 18 dello statuto dei
lavoratori, togliendo quindi l’obbligo di reintegro nei casi di licenziamento di
personale senza giusta causa e prevedendo per la cosa una solo ammenda
pecuniaria, perlopiù di relativamente basso importo, la politica non fa che
creare condizioni di cui persone senza scrupoli approfittano. Per gli immigrati
spesso avere un lavoro significa avere un permesso di soggiorno, avere la
possibilità di integrarsi nella comunità e nella società in cui viene ospitato.
La precarietà sul lavoro per queste persone è un’arma a doppio taglio, in
quanto, oltre al rischio di perdere il lavoro da un giorno all’altro, rischiano
anche di perdere il permesso di soggiorno e quindi la possibilità di risiedere
sul territorio nazionale, divenendo spesso clandestini disposti a fare
qualsiasi cosa pur di sopravvivere.
Fin troppo spesso riteniamo che
questi episodi avvengano solo al sud, nei famosi “campi di pomodori dove la
mafia schiavizza i lavoratori” in cui “se ti ribelli vai fuori [...] Costretti a subire i ricatti di
uomini grandi…” di cui Caparezza canta nella canzone “Vieni a ballare in Puglia”
e di cui si sente parlare spesso anche nei TG. In realtà il fenomeno appartiene
anche al centro-nord, dove però si riesce a camuffarlo sotto l’aspetto di una apparente
legalità, attraverso appalti a fittizie cooperative di lavoratori, i quali in
realtà sulle società non hanno alcun diritto, tanto che negli statuti aziendali
viene esplicitamente prevista la non adesione ai contratti nazionali di
categoria, aggirando in questo modo le tutele che essi offrono. Il business è
quello di appaltare o subappaltare a queste società parti della produzione,
pagandole una miseria. Così facendo le aziende appaltanti riescono a truffare
anche lo Stato, in quanto l’IVA pagata sull’acquisto di merci o servizi viene
rimborsata dallo Stato.
E noi comuni consumatori, che di
queste logiche di mercato ben poco sappiamo e conosciamo, cosa possiamo fare?
La risposta che ci danno i due relatori è molto semplice: informarsi su ciò che
si compra, controllare che ciò che mangiamo derivi da una filiera protetta e
controllata, seguire le campagne di sensibilizzazione che sindacati quali Cgil
e Coldiretti periodicamente promuovono sull’argomento, ma soprattutto, nel caso
in cui sorgano dubbi sulla derivazione di prodotti, attivarsi chiedendo
maggiori informazioni riguardo al prodotto e segnalare, nel caso, alle autorità
competenti i falsi. Queste piccole azioni, oltre a mettere a conoscenza di
questo fenomeno altre persone dando noi stessi informazioni, seguendo l’esempio
di chi questi fenomeni ha tentato di combatterli e farli emergere, potranno far
sì che venga meno questa rete di sfruttamento che riduce in condizioni ancor
più misere chi già è disperato e non ha nulla.
Ringrazio innanzitutto i lettori
che hanno voluto leggere questo articolo denso di informazioni; il secondo
ringraziamento va certamente all’associazione “Rete degli universitari” di
Bologna per aver organizzato in modo splendido e perfetto gli eventi che ho
descritto e tanti altri di cui non ho potuto raccontarvi. Infine ringrazio certamente
i relatori che hanno saputo intrattenere e trasmettere così tanto!
Andrea Contento


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